
Jurij Afanasiev non è soltanto il rettore di uno dei maggiori centri accademici e culturali russi, l’Università statale russa di studi umanistici, operante a Mosca dal 1991, che conta più di cinquemila studenti e cinquecento docenti. Afanasiev è stato una delle figure più prestigiose della politica democratica nella fase ultima del regime sovietico, quando, nel 1986, era rettore dell’Istituto storico-archivistico di Mosca. La sua passione politica anche oggi si manifesta direttamente nelle sue analisi critiche della situazione, come nel suo ultimo libro Russia pericolosa che percorre il passato e il presente russo per delinearne le costanti di lunga durata. Il quadro che questo occidentalista, studioso tra l’altro della scuola francese delle Annales, traccia della realtà russa è spietatamente severo, come risulta dall’intervista qui pubblicata.
Lei ha intitolato il suo ultimo libro Russia pericolosa. Cosa intende: pericolosa per sé o per gli altri?
Per dare una risposta estremamente laconica, dirò che il pericolo consiste nella continua, totale indeterminatezza e imprevedibilità delle prospettive del nostro Paese. Pericolosi, quindi, noi siamo prima di tutto per noi stessi. Tuttavia, il fallimento, a mio giudizio pienamente probabile, della Russia attuale può trasformarsi in una catastrofe globale e spingere sull’orlo del baratro l’intera umanità. Dell’entità e della gravità dei nostri problemi non ci si rende affatto conto in Occidente, né, del resto, li vuole ammettere la maggior parte dei miei concittadini.
Noi continuiamo a vivere in una realtà schizofrenica: nello stesso tempo ci si immagina una cosa, se ne proclama un’altra e se ne fa una terza. Pur dichiarando la libertà della proprietà privata, di fatto abbiamo costruito uno Stato corporativo, in cui i reali diritti del proprietario sono determinati dai suoi rapporti col potere. Pur definendoci uno Stato di diritto, in realtà sempre e dovunque ignoriamo il diritto scritto. Pur dichiarando la nostra adesione al modello occidentale di sviluppo, ai valori liberali e democratici, continuiamo ad usare ciò che di peggio c’è nel retaggio asiatico dell’Impero russo e dello Stato totalitario bolscevico.
L’economia del Paese invecchia letteralmente a vista d’occhio, le grosse catastrofi nel campo dell’industria e dei trasporti diventano consuete e l’ambiente è contaminato in modo quasi irreparabile (grande è il desiderio di non rinunciare a questo incerto quasi). La nostra sdoppiata, indeterminata realtà già oggi genera fiumi di sangue in Cecenia, fiumi tutt’altro che immaginari e ipotetici. All’ordine del giorno ci sono nuovi focolai di tragedie nel Caucaso e nell’Asia Centrale. E sto parlando soltanto della prospettiva più evidente e immediata.
È in corso in Russia un ripensamento di tutto il passato. Quali sono, secondo lei, i maggiori risultati raggiunti dalla storiografia postcomunista e le linee di ricerca?
Anche qui, per essere brevi, direi che i nostri risultati in questo campo sono praticamente nulli e la direzione delle nostre ricerche è del tutto indeterminata. La nostra scienza storica negli ultimi quindici anni ha attraversato tre fasi. La prima è stata quella di una critica moderata delle tesi più odiose dello stalinismo. Abbiamo appreso finalmente che non tutti gli uomini politici anti-partito meritavano lo sterminio.
La seconda fase è stata quella dell’anticomunismo ostentato, il cambiamento di segno nella valutazione dei più diversi avvenimenti e personaggi del passato. Per esempio, Nicola II, detto il sanguinario, divenne quasi un santo (ed è stato canonizzato dalla Chiesa). La terza fase è l’attuale e consiste in un ristabilimento (con l’attiva partecipazione delle autorità) della