racconti di scacchi
“Concorso” di colpa
di Manlio Baviera
Aveva commesso un errore.
Lo percepì chiaramente dal fatto che i suoi collaboratori evitavano di
rispondergli allo sguardo.
Aveva commesso un errore: era dannatamente chiaro.
Gli scacchi, purtroppo per lui, non ammettono la menzogna: scegliere una
variante piuttosto che un’altra, non é questione di estetica, o di
preferenza letteraria, è una scienza esatta. Alla fine chiedono il conto. E
lui aveva sbagliato.
Un errore, un dannato errore, sviato forse da chissà quali tortuosi percorsi
mentali, di ricerca della perfezione, da parte di chi perfetto non è… o
fu una pavida fuga…un errore… maledizione!
Aveva appena consegnato la mossa in busta e nel momento stesso si rese conto
che tutto era perduto.
Ma quell’americano era spavaldo, tremendamente forte, più forte di qualunque
altro avversario avesse mai incontrato; di più: era diabolico.
Improvvisamente si sentì umiliato.
Mai che fosse, non dico riuscito a metterlo nell’angolo, ma anche solo a
impensierirlo, insinuargli il dubbio, vederlo tentennare: mai.
In qualunque variante si fossero imbarcati, il campione sembrava percorrerla
mentalmente prima di lui e gli mostrava beffardo la chiave in suo possesso.
“Forse ho sbagliato” pensò guardando i tre accoliti che lo chiamavano
rispettosamente “presidente” chissà poi di che.
Presidente di cosa poi, del Kolchoz, dell’URSS, o di giuria?
Il piccolo specchietto della Zil nera, rifletteva i volti mesti dei quattro
nerovestiti, che all’imbrunire, si trovarono in una fredda cittadina di una
sperduta isola nell’oceano.
In basso, la spuma crespa incorniciava una nera lingua che ispezionava con
stolida regolarità gli anfratti scogliosi.
“Forse ho sbagliato” pensò tra sé il “presidente” se così possiamo
chiamarlo, e guatò con rabbia impotente, i due scherani di partito, che lo
seguivano e lo imitavano persino nel rinserrarsi il volto nel soprabito.
“Forse ho sbagliato” pensò nuovamente. E’ vero però, adduceva adesso a sua
difesa, in un immaginario confronto con un accusatore, ancora più
immaginario, che quell’americano sembrava leggergli nel pensiero.
“Forse ‘abbiamo’ sbagliato” gracchiò in un soprassalto e in quell’ ‘abbiamo’
sembrò riversare l’amarezza.
“Forse” echeggiò il braccio destro.
“Sbagliato” fece il secondo.
“Abbiamo sbagliato” pensò il più giovane dei quattro e si chinò a
raccogliere qualcosa di insolito che luccicava nel terriccio.
Gli altri avanzavano con lo sguardo perso in cerca di un punto su cui
fissare il pensiero, le braccia ciondolanti scimmiescamente.
“Forse ho sbagliato” pensarono insieme i quattro spergiuri.
Era una bellissima e preziosissima perla smarrita chissà da chi e quando,
sul terriccio antistante la nera scogliera.
Tristi rintocchi giungevano adesso, percorrendo impalpabili sentieri, da un
campanile lontano.
Il presidente Boris sentì un brivido percorregli la schiena e chissà per
quale associazione d’idee pensò al gelido inverno siberiano.
Il ragazzo raccolse il gioiello ma venne redarguito dal presidente: “E’
falsa” sentenziò erroneamente, invitandolo a liberarsene.
“E’ salsa” ripeterono gli altri due, che evidentemente avevano anche qualche
deficit uditivo.
Il giovane la lanciò via, fissando mentalmente il luogo per recuperarla in
un secondo tempo.
Inquadrandosi con gli altri tre, proseguì il cammino mentre gli sovvenne,
chissà mai perché, l’espressione “perle ai porci”.