Viviamo un’epoca ed una cultura in cui, scomparsi i riti di passaggio che segnavano le fasi della vita ed i momenti determinanti del vivere in comune, emergono altri riti collettivi a rivestire un ruolo aggregatore e catartico.
Si pensi al Festival di Sanremo che ogni anno riempie le cronache dei giornali con notizie ed indiscrezioni sui partecipanti e con polemiche reali o create ad hoc.
L’interesse che riscuote, la curiosità che provoca paiono solo parzialmente centrate sullo scopo originale dell’evento che è quello di promuovere una gara di canto.
Il cantare d’amore, le canzoni ed i sogni anno dopo anno si configurano sempre più come pretesto per metter in scena un evento mediatico ridondante e di grande rilevanza, in cui i temi oscuri del presente giungano a stemperarsi nella cornice festosa, o vengano sublimati dal senso indotto di appartenenza ad una “tradizione all’italiana” che è la grande forza del Festival di Sanremo.
E dove il ritmo delle serate fra musica, ricordi, bel mondo e bellezze muliebri riesca a catturare occhi orecchi e cuore. Che la partecipazione emotiva è essenziale ed auspicabile, la commozione per gli eventi passati e per l’Italia che cambia di rito, il senso anestetizzante di “deja vu” che regola ogni fase della kermesse puntuale e lucido.
E se le emozioni che le canzoni ed i cantanti di Sanremo sanno suscitare sono autentiche e frutto di professionalità e passione, tutto il resto è rito collettivo, è l’arena in cui l’ Italia celebra la sua liturgia all’altare dello spettacolo e delle apparenze. “Perchè Sanremo è Sanremo”: senso di appartenenza che muove l’emozione e che attutisce ed alleggerisce il crudo vivere quotidiano.
Marzia Mazzavillani © Opera protetta da licenza C.C.
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